Normative

La pubblicità comparativa secondo il diritto europeo

L’Unione Europea ha dettato, con Direttiva 97/55/CE, una regolamentazione comune della pubblicità comparativa, fondata su otto requisiti di liceità che devono essere soddisfatti in via cumulativa dagli imprenditori che ne facciano uso

Pubblicato il 17 Nov 2020

pubblicità comparativa

Nell’era digitale la pubblicità rappresenta il più formidabile strumento di accreditamento commerciale a disposizione delle imprese, alla costante ricerca di nuova clientela per non soccombere sul mercato. Tra le diverse modalità con cui può essere realizzato il messaggio, la pubblicità comparativa è stata per un certo periodo di tempo una delle forme più praticate, data la capacità di intercettare l’attenzione dei consumatori, tale scelta commerciale ha presentato allo stesso tempo significativi rischi per le imprese, i cui prodotti o servizi venivano menzionati non positivamente nella comunicazione di un’azienda concorrente.

Per questo motivo, l’Unione Europea ha dettato, con Direttiva 97/55/CE, una regolamentazione comune della pubblicità comparativa, fondata su otto requisiti di liceità che devono essere soddisfatti in via cumulativa dagli imprenditori che ne facciano uso, secondo un impianto sostanzialmente confermato dalle modifiche intervenute con Direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa.

Pubblicità comparativa: una definizione equivoca

L’art. 2, lett. c, della Direttiva qualifica in termini di pubblicità comparativa “qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente”.

Tale definizione, tuttavia, desta non poche perplessità in quanto non coglie l’essenza della fattispecie, ravvisabile piuttosto nella presenza, nel messaggio pubblicitario, di un’allusione esplicita o di un riferimento inequivocabile al prodotto o servizio dei competitor, come correttamente ravvisato dalla Corte di Giustizia UE nel caso De Landtsheer/2007[1].

La scelta di regolamentare la pubblicità comparativa mediante l’individuazione di regole uniformi assai stringenti conferma la natura fisiologicamente non lecita del fenomeno, laddove il messaggio non sia irregimentato entro i requisiti previsti dall’art. 4, che dunque operano quali “cause di giustificazione” dell’illecito concorrenziale, analogamente alle circostanze scriminanti nel diritto penale.

pubblicità comparativa
Un esempio di pubblicità comparativa sulle autostrade italiane

I requisiti di liceità e le precisazioni della Corte di Giustizia UE

Dalla lettura dell’art. 4, lett. a-h, della Direttiva è possibile individuare gli otto requisiti di liceità, che dettano regole particolarmente stringenti riguardo l’oggetto della comparazione, le modalità del confronto e il contenuto del messaggio pubblicitario.

  1. Il messaggio pubblicitario deve confrontare beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi (lett. b), secondo un parametro di “sufficiente interscambiabilità per il consumatore”[2] che postula in ogni caso l’esistenza di un rapporto di concorrenzialità tra le imprese confrontate. La precisazione della Corte è dunque funzionale a superare, in sede applicativa, le incertezze derivanti dal generico riferimento all’identità di esigenze, circoscrivendo così la sfera di operatività della pubblicità comparativa: in tal senso, è lecito confrontare i prezzi dei biglietti aerei o ferroviari praticati per la stessa tratta, mentre non sarà ammissibile una pubblicità in cui siano rapportati il costo di un mazzo di rose e di un orsetto di peluche, beni che, pur rispondendo alla medesima esigenza, appartengono evidentemente a differenti categorie merceologiche.
  2. I prodotti tutelati da denominazioni d’origine possono essere confrontati esclusivamente con altri prodotti aventi la medesima denominazione (lett. e), data la peculiarità degli stessi: il divieto, tuttavia, non opera nel caso in cui il messaggio compari un prodotto privo di denominazione con uno che invece ne è provvisto, in quanto la pubblicità comparativa non ottiene alcun vantaggio indebito dalla reputazione del prodotto concorrente.
  3. Inoltre, è vietata la pubblicità che presenti un bene o un servizio come imitazione di un bene del concorrente protetto da un marchio o una denominazione commerciale (lett. g), secondo un’area di illiceità estesa dalla Corte di Giustizia UE anche ai messaggi che “tenuto conto della presentazione globale e del contesto economico in cui sono inseriti, sono idonei a trasmettere implicitamente siffatta idea al pubblico destinatario”[3], traendo quindi un indebito vantaggio dalla reputazione del bene confrontato[4].
  4. Nel giudizio comparativo, l’operatore pubblicitario deve adottare tutte le misure necessarie per offrire una comunicazione ancorata su parametri di obiettività (lett. c), limitandosi a confrontare profili essenziali alla formazione della scelta d’acquisto del consumatore (ad es. le componenti tecniche di un veicolo); pertinenti alla categoria merceologica dei beni rapportati (ad es. la digeribilità di un prodotto alimentare); empiricamente verificabili sulla base delle informazioni presentate nel messaggio (e dunque non sarà lecita la pubblicità comparativa che rapporta le caratteristiche estetiche di un prodotto rispetto a quelli dei concorrenti); e rappresentative, ovvero espressive dei tratti di differenzialità del bene rispetto ai competitors (ad es. la capacità di un veicolo di percorrere un numero maggiore di km con lo stesso quantitativo di carburante).

Quanto al contenuto del messaggio, la Direttiva evoca le altre forme di distorsione pubblicitaria, menzionando espressamente un divieto di pubblicità comparativa:

  1. ingannevole (lett. a), ovvero non può, anche solo potenzialmente, indurre in errore i consumatori, pregiudicandone il comportamento economico e ledendo al tempo stesso le imprese concorrenti;
  2. denigratoria (lett. d), secondo una illiceità circoscritta al solo discredito non necessario (dato che l’essenza della pubblicità comparativa risiede nell’evidenziare la superiorità del proprio prodotto rispetto ai competitors), derivante ad es. dall’utilizzo di espressioni o immagini lesive del concorrente;
  3. parassitaria (lett. f), ovvero non può “avere l’effetto di creare, nella mente del pubblico a cui la pubblicità si indirizza, un’associazione tra l’azienda e il concorrente, nel senso che il pubblico potrebbe estendere la reputazione dei prodotti della prima a quelli venduti dal concorrente”[5];
  4. confusoria (lett. h), adoperando un marchio identico o simile al concorrente per indurre il consumatore a ritenere sussistente un’identità o un collegamento commerciale tra imprese in realtà concorrenti.

La possibilità di un modello alternativo

L’impianto normativo consolidato dalla giurisprudenza comunitaria conferma un approccio europeo fondato sulla tutela dell’interesse dei consumatori ad una corretta informazione. Questo modello, tuttavia, risulta caratterizzato da una rigidità – testimoniata dal costante ricorso ad altre fattispecie tipiche della disciplina pubblicitaria e da una regolamentazione minuziosa del contenuto del messaggio – non più motivata, dato che ormai il consumatore medio dell’era digitale può dirsi sufficientemente smaliziato per comprendere le esagerazioni connaturate al fenomeno pubblicitario.

Scavalcare questo steccato ideologico consentirebbe alle imprese più creative, anche se non dotate di significative disponibilità economiche, tramite la realizzazione di messaggi accattivanti (purché ovviamente non ingannevoli o non manifestamente denigratori) in grado di catturare l’attenzione del consumatore sulle peculiarità del proprio prodotto, di conseguire in breve tempo un grande accreditamento commerciale.

Il caso Tele2

Emblematico è il noto caso Tele2, operatore telefonico che, per lanciare sul mercato il proprio piano tariffario, realizzò una serie di spot televisivi in cui veniva rappresentata la stessa corsa in taxi con due guidatori diversi[ e con la richiesta di prezzi differenti, con il messaggio “Perché pagare il doppio?”, chiaramente riferito al costo del servizio praticato dall’operatore dominante sul mercato – Telecom Italia – menzionato al termine dello spot: nel pronunciarsi sul ricorso avanzato dall’ex-monopolista, il Giurì di Autodisciplina, pur riconoscendo la correttezza, obiettività e non denigratorietà del messaggio, chiese comunque un’attenuazione dei suoi contenuti, fondata esclusivamente su una valutazione di opportunità, visti i danni che lo spot aveva arrecato al competitor.

Per questo motivo, pur confermando le tutele garantite dalle altre figure, il superamento della diffidenza manifestata verso forme di pubblicità suggestiva sul modello statunitense[6], realizzerebbe indubbiamente effetti positivi, aprendo nuovi spazi di libertà agli operatori economici e innalzando complessivamente il livello di competitività del mercato.

  1. Con sentenza del 19 aprile 2007, caso De Landtsheer (C-381/05), infatti la Corte precisa: “può essere considerato pubblicità comparativa il riferimento, in un messaggio pubblicitario, a un tipo di prodotto, e non a un’impresa o a un prodotto determinati, se permette di identificare concretamente tale impresa o i beni da essa offerti”.
  2. Enunciato, per la prima volta, con sentenza del 19 settembre 2006, caso Lidl Belgio (C-356/04), par. 26.
  3. Sentenza del 18 giugno 2009, caso L’Oreal S.A. (C-487/07), par. 75.
  4. Il divieto di pubblicità comparativa del c.d. prodotto-imitazione non deve essere confuso con il c.d. agganciamento, la cui illiceità risiede nell’abusivo sfruttamento dell’altrui accreditamento commerciale derivante dall’equiparazione del prodotto pubblicizzato non alle caratteristiche tecniche, bensì agli standard qualitativi del prodotto notorio (ravvisabile, ad es. nel celebre spot del cioccolato Novi, rapportato ai livelli qualitativi degli stessi prodotti provenienti dalla Svizzera).
  5. Come ben spiegato con sentenza del 23 febbraio 2006, caso Siemens AG (C-59/05)
  6. Infatti è proprio nell’esperienza statunitense che la pubblicità comparativa nasce come tecnica di marketing aggressivo volta ad esaltare – in modo iperbolico e con trovate cinematografiche – i pregi del prodotto pubblicizzato, screditando al tempo stesso il bene del competitor, mediante un messaggio dal contenuto ironico ma non manifestamente denigratorio (celebre, in tal senso, la continua “guerra commerciale” tra Pepsi e Coca Cola).

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Victoria Parise
Avvocato
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Lorenzo Pierini

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