Sostenibilità

Digitalizzazione e sostenibilità: misurare il footprint ambientale delle tecnologie

Aumenta l’utilizzo “ambientalmente consapevole” del digitale. Secondo una ricerca promossa da Capgemini, circa la metà delle aziende dichiara di aver sviluppato un approccio operativo sostenibile, ma meno di una su cinque si è effettivamente dotata di una strategia di IT coerente per ridurre il proprio footprint ambientale

Pubblicato il 02 Ago 2021

Simone Bizzarri

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digitalizzazione sostenibilità

Utilizzare le enormi potenzialità delle tecnologie digitali per automatizzare e rendere agili i processi produttivi ha certamente un impatto positivo in termini di riduzione degli sprechi e di contenimento delle emissioni di CO2. La crescente introduzione di applicazioni smart in ambito industriale implica, tuttavia, la necessità di misurarne il footprint ambientale per salvaguardare il più possibile un percorso eco-compliant. Dopo il greenwashing, vale a dire la strategia di comunicazione di certe imprese o istituzioni politiche, finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva dal punto di vista dell’impatto ambientale, non vorremmo che si cadesse in quello che potremmo definire digitalwashing, la propensione delle organizzazioni a credere che il sempre più massiccio utilizzo di tecnologie intelligenti per automatizzare e governare i processi di produzione sia, di per sé, una strategia in grado di ridurre anche il footprint ambientale. Parliamo quindi di digitalizzazione e sostenibilità.

Tecnologie digitali e transizione green

Certamente le tecnologie digitali svolgono un ruolo decisivo nella transizione green. Velocità, flessibilità e puntualità nella gestione delle attività si traducono spesso, per esempio, in un netto calo degli sprechi produttivi o nell’ottimizzazione degli spostamenti delle merci (si pensi alle applicazioni di intelligenza artificiale nel settore della logistica). Efficienza che si traduce in un taglio significativo nella emissione di gas serra.

Non è, tuttavia, sufficiente fermarsi qui. Le imprese tecnologiche che intendono svolgere con responsabilità la propria missione di supporto nel percorso di transizione digitale dell’economia dovrebbero essere le prime a opporsi al bias cognitivo piuttosto diffuso per il quale “se c’è più innovazione, dunque, c’è anche più sostenibilità”. La domanda non è tanto se il digitale renda più eco-compatibile il funzionamento di un’impresa (le prove a favore sono numerose e dimostrate in diversi studi), quanto capire meglio in che misura le applicazioni utilizzate gravino sull’ambiente, considerando che non esistono tecnologie a impatto zero.

La risposta è particolarmente complessa, anche in considerazione che, dopo una focalizzazione a monte e a valle della fase produttiva (demand planning, amministrazione e logistica), è oggi il core produttivo a essere massicciamente coinvolto in progetti di informatizzazione e automazione. E non si tratta solo di grandi imprese.

Zero defects plant

È recente l’esempio di una media impresa marchigiana, entrata nel cluster nazionale Fabbrica Intelligente, che ha avviato un progetto di realizzazione di un elettromandrino intelligente e iperconnesso, in grado di trasferire informazioni in tempo reale sia al produttore (per le operazioni di manutenzione predittiva) sia all’utilizzatore che può ricevere i dati preziosi per capire prestazioni, tempistiche e molte altre informazioni utili all’ottimizzazione dell’uso della macchina, anche in termini di efficienza energetica. Accanto a questa innovazione, l’azienda ha inoltre avviato un’iniziativa zero defects plant, che punta a realizzare una filiera estesa che non produca alcuno spreco.

Se dunque gli obiettivi di questo progetto di digitalizzazione, come di diversi altri, sono certamente orientati a una maggiore sostenibilità, è evidente che per la loro realizzazione sia necessaria l’applicazione di soluzioni di intelligenza artificiale (AI), il cui impatto dal punto di vista ambientale è da stimare nel dettaglio. Il rischio, infatti, è che le emissioni legate all’introduzione di queste tecnologie possano depotenziare, almeno in parte, i risultati in termini di risparmio energetico e riduzioni degli scarti di produzione.

Digitalizzazione e sostenibilità

La necessità di misurare l’impatto ambientale del digitale è un tema di grande attualità per chi si occupa di tecnologia. Yoshua Bengio, scienziato canadese, noto per il suo lavoro su reti neurali artificiali e Premio Turing nel 2018 per le sue ricerche sull’intelligenza artificiale, ha per esempio sottolineato con grande forza questa mancanza di attenzione nella misurazione dei footprint in termini di emissioni di gas serra delle applicazioni di AI.

Tuttavia, qualcuno che inizia a effettuare rilevazioni esiste. Secondo un recente studio della Amherst Massachusetts University, nella sola fase di apprendimento degli algoritmi di un qualsiasi sistema di intelligenza artificiale vengono generate oltre 284 tonnellate di anidride carbonica. Una cifra che non è certo destinata a fermarsi qui. Lo sviluppo dell’AI e il suo impiego massiccio all’interno dei cicli produttivi dell’industria richiederà potenze di calcolo crescenti che non potranno che incidere significativamente sul livello di consumi energetici.

Un’affermazione esemplificativa dell’Università americana, rileva che un sistema di AI inquina 5 volte di più di un’automobile durante tutta la sua vita. A tale conclusione si è giunti a seguito del monitoraggio nel funzionamento di numerosi sistemi di AI. In particolare, gli studiosi hanno verificato come la fase critica si determini nel momento nel quale il software è nella fase di “tuning”, vale a dire di “apprendimento”. Questo richiede l’elaborazione di una mole consistente di dati che, come è facile intuire, richiedono un impiego di capacità computazionale straordinaria, con evidenti ricadute sui consumi energetici.

Che l’AI e le altre tecnologie digitali siano fattori che complessivamente portano efficienza, anche in termini di riduzione di emissioni di gas serra, non è certo in discussione. È altrettanto evidente però, che i conti non si possono fare correttamente se non si mettono i data center, vero fulcro tecnologico delle moderne economie, al centro del dibattito.

Sostenibilità e digitalizzazione: il ruolo dei data center

Secondo i dati del think tank francese The Shift Project 2019, il contributo alle emissioni globali di anidride carbonica da parte del settore ICT è in aumento, dal 2% del 2008 al 3,7% del 2020, con previsioni di incremento che vedrebbero registrare un 8,5% nel 2025.

Di queste, una buona parte di responsabilità è proprio dei centri di calcolo. Tra le molte analisi che vanno in questa direzione citiamo lo studio commissionato da Eon alla RWTH Aachen University che evidenzia come nel 2030 i data center consumeranno il 13% di tutta l’elettricità prodotta a livello mondiale. Nel 2010 era solo l’1%. Grazie all’’ottimizzazione energetica dei centri di calcolo (attraverso l’utilizzo di soluzioni di power e cooling sempre più efficienti) e all’impiego di energie pulite per la loro alimentazione, si potrà compensare, almeno in parte, il contributo negativo dei data center dal punto di vista ambientale.

A complicare ulteriormente il quadro, è necessario tenere presente che sta crescendo il numero di edge data center (i micro-datacenter distribuiti sul territorio) necessari per supportare la fruizione di un numero crescente di connessioni, app e servizi erogati per i device mobili. Tra circa 20 anni, il consumo di energia da parte degli edge data center supererà infatti 3mila TWh, pari al consumo di quasi 275 milioni di famiglie. È strategico dunque progettare centri dati, non solo efficienti, ma a impatto zero, se non positivo sull’ambiente, se non vogliamo che il delta dei benefici in termini di sostenibilità portato dalla digitalizzazione dell’economia e, più in generale dei nostri stili di vita, si assottigli.

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Sostenibilità: una sensibilità condivisa

L’approccio verso un utilizzo “ambientalmente consapevole” del digitale sta facendo progressi, ma con palesi contraddizioni. In una ricerca promossa da Capgemini, che ha interpellato 1.000 organizzazioni, il quadro che emerge sottolinea che, nonostante circa la metà delle aziende dichiari di avere sviluppato un approccio operativo sostenibile, in realtà meno di una su cinque si è effettivamente dotata di una strategia di IT coerente per ridurre il proprio footprint ambientale.

Consapevoli della problematica, i principali provider di infrastrutture cloud e operatori di data center hanno creato il patto per la neutralità climatica (leggi il servizio: Ambiente: nasce il Patto per la neutralità climatica dei data center). Tra le 25 società che aderiscono ci sono anche i big del settore: Aruba, OVHcloud, AWS, Google, Equinix e NTT, oltre a 17 associazioni. L’impegno delle società coinvolte è di rendere i data center europei neutri dal punto di vista climatico entro il 2030. Si tratta di un obiettivo certamente ambizioso, ma che può contribuire sensibilmente alla transizione verso un’economia più green.

Anche le istituzioni pubbliche si stanno muovendo da questo punto di vista. La nuova denominazione di alcuni Ministeri per favorire un approccio interdisciplinare a temi che riguardano il futuro, è senz’altro un primo segnale positivo. Ambiente, mobilità sostenibile, infrastrutture, innovazione tecnologica, transizione ecologica e digitale, nuovi paradigmi produttivi: sono tutti temi fortemente correlati tra loro. Ed è qui che la ricerca e la stretta relazione tra pubblico e privato hanno un ruolo fondamentale se si vogliono determinare sensibili ricadute sull’economia nazionale nel suo complesso.

Tuttavia, gli investimenti previsti dal PNRR, da quelli più prettamente digitali (per esempio, la promozione della connettività a 1 gigabit/secondo in tutto il Paese, la copertura 5G e la realizzazione di un’infrastruttura cloud nazionale sicura per la fruizione dei servizi pubblici digitale) a quelli legati alla sostenibilità ambientale, anch’essi fondati su un utilizzo delle nuove tecnologie, dovrebbero essere sistematicamente accompagnati da misurazioni puntuali che registrino le ripercussioni in termini di emissioni di gas serra e cicli di smaltimento.

Conclusioni

Se, come pare, il nostro orizzonte sarà caratterizzato sempre più da smart city interconnesse e da processi aziendali e produttivi fortemente automatizzati e intelligenti, dovremo imparare a sviluppare “nativamente” un approccio verso i percorsi di digitalizzazione che tengano conto dell’impatto ambientale delle tecnologie utilizzate per vivere e lavorare.

L’affermazione di questa sensibilità sarà, sempre di più, il fattore cruciale per valorizzare le organizzazioni che, ragionando su prospettive a medio-lungo termine, saranno in grado di coniugare una crescita delle capacità competitive con il rispetto delle risorse economiche, sociali e ambientali. La digitalizzazione dovrà fare sempre più i conti con la sostenibilità.

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