Innovazione industriale

Open Innovation: cos’è e come si collegano startup e aziende

L’open innovation chiama le imprese ad aprirsi all’esterno per rimanere competitive. Che cos’è, come si fa, lo stato dell’arte in Italia

Pubblicato il 03 Mag 2021

Josephine Condemi

Giornalista

Open finance - open innovation

Che cos’è l’Open Innovation

“Open innovation” significa, letteralmente, “Innovazione aperta”. L’espressione è stata coniata dall’economista statunitense Henry W. Chesbrough nel saggio “The era of open innovation”, pubblicato nel 2003 all’interno dell’MIT Sloan Management Review.

L’open innovation è un modello di innovazione aziendale agli antipodi del modello tradizionale.

Il modello tradizionale, che ha funzionato per tutto il Novecento, si è basato su un processo verticale di innovazione, tutto interno all’azienda: dal settore Ricerca e Sviluppo al prodotto finale.

Successo, Strategia, Business, Soluzione, Marketing

Un modello di innovazione chiusa, basato sull’autosufficienza, con grandi investimenti nell’area R&S interna e sulla proprietà intellettuale per ottenere idee da cui sviluppare prodotti e servizi da commercializzare e distribuire in completa autonomia.

In questo modello, il confine tra l’azienda e il mondo esterno è molto rigido.

Chesbrought ha individuato i principi di cultura aziendale che lo hanno reso possibile:

  • pensare che le persone più intelligenti nel settore lavorino nell’impresa, e quindi fare di tutto per assumerle/tenerle dentro;
  • legare il profitto della R&S alla scoperta del maggior numero possibile di idee migliori nel settore, da sviluppare e commercializzare in proprio;
  • controllare la proprietà intellettuale per non consentire alla concorrenza di trarre profitto dalle proprie idee;
  • associare l’innovazione interna al vantaggio competitivo del lancio “in solitaria” sul mercato;
  • associare questo lancio ad un automatico ritorno di profitto;
  • reinvestire il profitto ottenuto in R&S per mantenere il vantaggio acquisito.

Un modello entrato in crisi dalla fine del Novecento, sia per l’aumento del numero e della mobilità dei lavoratori della conoscenza, sia per la crescente disponibilità di capitale di rischio privato, che ha aiutato a finanziare nuove imprese fuori dai laboratori di ricerca e sviluppo tradizionali.

Oggi, nel caso in cui l’azienda non persegua tempestivamente una scoperta, le persone coinvolte potrebbero fondare una startup e ricevere finanziamenti per sviluppare dall’idea il prodotto/servizio. Viceversa, l’azienda può oggi permettersi di non reinvestire in nuove idee ma cercare all’esterno una tecnologia da commercializzare.

Il confine tra azienda e mondo esterno è diventato “poroso”, possibile luogo di interscambio.

Si è passati quindi a un modello di innovazione aperta, orizzontale, in cui l’azienda è chiamata ad “aprirsi” all’esterno, a costruire percorsi con startup, università, enti di ricerca, altre imprese, a immaginare nuovi possibili modelli di business.

Open finance

Nel modello di open innovation, un’azienda commercializza le idee esterne e/o usa canali esterni per commercializzare le proprie idee. Un’apertura che riguarda in modo trasversale tutte le attività dell’impresa, dal management degli asset alla scelta dei partner fino alla (ri)configurazione del vantaggio competitivo.

In altre parole: per evolversi e rimanere competitiva o affermarsi sul mercato, un’azienda non può non attingere a idee e canali con percorsi “misti” che includano strumenti e competenze non necessariamente presenti al proprio interno.

I principi di cultura aziendale che rendono possibile l’open innovation, individuati da Chesbrought, sono molto diversi da quelli tradizionali:

  • essere consapevoli che non tutte le persone più brillanti del settore sono al proprio interno, quindi una messa in discussione che porta alla ricerca di collaborazioni esterne;
  • riconoscere che la R&S esterna può creare valore significativo senza che ciò “svaluti” la R&S interna, che è necessaria per rivendicare una parte di quel valore;
  • realizzare che non tutta la ricerca interna porterà necessariamente al profitto;
  • scegliere di anteporre la costruzione di un modello di business migliore al lancio “in solitaria” sul mercato;
  • cambiare prospettiva sulla proprietà intellettuale, sia interna, vista come fonte di profitto quando viene utilizzata da altri, sia esterna, vista come fonte di investimento per far progredire il business.

Chesbrought ha notato come l’open innovation sia particolarmente funzionale nel salvare i “falsi negativi”, quei progetti che inizialmente non sembrano promettenti ma poi si rivelano preziosi: nel modello di innovazione chiusa, l’azienda sarà incline a perdere molte di queste opportunità perché magari richiedono di essere combinate con tecnologie esterne o di ri-bilanciare il business oltre le attività ordinarie, per poi scoprire che i progetti abbandonati avevano un valore commerciale enorme.

L’esempio è Xerox, quando ancora aveva internamente il Palo Alto Research Center: concentrata su fotocopiatrici e stampanti ad alta velocità, l’azienda non si accorse del potenziale di Ethernet e dell’interfaccia grafica GUI sviluppate al suo interno, che furono commercializzate con grande successo da altre aziende (la GUI fu introdotta nei sistemi operativi sia Macintosh che Windows).

Tra i maggiori vantaggi del modello open innovation troviamo la riduzione dei rischi di innovazione e di R&S quando si adottano soluzioni già avanzate e una maggiore capacità di adattare il business al contesto, quindi a rimanere competitivi sul mercato. Tra gli svantaggi, il maggior costo di coordinamento e di gestione delle risorse.

Come fare open innovation e come il modello collega aziende e startup

Superata la sindrome NIH – Not Invented Here, la maggior parte delle industrie si sta orientando verso l’open innovation.

A fine aprile 2021 la casa automobilistica Toyota ha annunciato di aver acquisito Level 5, la divisione dedicata al driverless dell’impresa di trasporti Lyft. L’operazione segue l’investimento nel 2020 nella startup “Pony.ai” per la realizzazione di una flotta di robotaxi, e la partnership con la scaleup unicorno “Aurora”, fondata nel 2017 da ex-dirigenti di Uber, Tesla e Google, per sviluppare sistemi di guida senza conducente.

Procter&Gamble, la multinazionale americana di beni di largo consumo, dopo l’ormai famoso programma “Connect+Develop” che ha aperto l’R&S interna al mondo e da cui è emersa l’idea dello spazzolino elettrico SpinBrush, ha adottato una policy per cui se l’azienda interna non utilizza l’idea prodotta entro tre anni, questa sarà offerta ad aziende esterne, anche concorrenti. In undici anni, dal 2000 al 2011, la percentuale degli sforzi di innovazione che ha raggiunto gli obiettivi di profitto e reddito è salita dal 15 al 50%.

LEGO, l’azienda danese produttrice di giocattoli, da anni ha introdotto il programma Lego Ideas: una piattaforma che stimola gli utenti con challenge e contest di difficoltà diversa ad inviare e votare nuovi possibili modelli di prodotto.

Lo stesso Chesbrought ha però precisato che l’open innovation non è una destinazione obbligatoria per tutte le aziende: piuttosto, le imprese si posizionano su un continuum tra i due poli, “essenzialmente chiusa/completamente aperta”, che possono essere rappresentati, rispettivamente, dall’industria dei reattori nucleari e da Hollywood.

Chesbrought ha differenziato le strategie di open innovation in tre categorie: finanziamento, generazione o commercializzazione dell’innovazione.

Il finanziamento può avvenire tramite investitori o benefattori: gli investitori si concentrano prevalentemente sullo sviluppo di idee promettenti, i benefattori sulle prime fasi della scoperta. Gli investitori comprendono le società di Venture Capital, i venture capital aziendali, i business angel, gli investitori di private equity, le Small Business Investment Companies che forniscono venture capital alle piccole imprese. I benefattori racchiudono enti governativi (es: la National Science Foundation e la DARPA del governo degli Stati Uniti) ma anche fondazioni private.

L’innovazione per Chesbrought è generata da quattro tipi di organizzazioni che corrispondono a quattro tipologie di persone: l’esploratore, il commerciante, l’architetto, il missionario.

Gli esploratori dell’innovazione eseguono ricerca sulla scoperta che ha avuto origine nell’R&S aziendale: tipicamente, danno origine a spin-off. I commercianti si focalizzano su una serie ristretta di tecnologie, che vengono poi blindate dalla proprietà intellettuale e vendute ad altri. Un esempio è Qualcomm, che produceva cellulari e software ma oggi si concentra sulla concessione di licenze per la propria tecnologia CDMA – Code Division Multiple Access, l’accesso multiplo a divisione di codice alla base del wireless, e sui chip associati. Gli architetti dell’innovazione sviluppano architetture di sistema, i cui pezzi sono prodotti da altri, i missionari dell’innovazione creano tecnologie per servire una causa. Tra gli esempi più famosi di prodotti realizzati con l’approccio da missionari, i software Open Source, su tutti Linux.

La commercializzazione avviene infine grazie ai marketer e i centri one-stop: i primi si concentrano sullo studio dei contesti di mercato per identificare quali idee esterne portare in azienda; i secondi prendono le migliori idee e le consegnano ai loro clienti a prezzi competitivi.

Un esempio di marketer è Pfizer, la più grande società del mondo operante nel settore della ricerca, della produzione e della commercializzazione di farmaci. Un esempio di centro one-stop è IBM Global Services.

Gli Osservatori “Digital Innovation” del Politecnico di Milano distinguono due approcci all’open innovation da parte delle aziende: Inbound Open Innovation e Outbound Open Innovation.

Inbound e Outbound sono due strategie di marketing che corrispondono al “farsi trovare” e al “cercare”. Il primo è più diffuso del secondo, perché considerato meno rischioso.

L’Inbound Open Innovation stimola l’innovazione all’interno dell’impresa attraverso collaborazioni con università e partner consolidati, la creazione di incubatori o acceleratori di impresa interni, la creazione di Corporate Venture Capital. Non mancano le “Call4Ideas”, “Call4Startup”, i contest, ovvero i concorsi a tema che mirano a raccogliere idee innovative da supportare nello sviluppo né gli Hackathon, Datathon, Appathon, ovvero le maratone rivolte a sviluppatori esterni specializzati che realizzano in poche ore le idee innovativi utili al business.

L’Outbound Open Innovation cerca l’innovazione all’esterno dell’impresa attraverso joint venture, licensing dei prodotti, piattaforme di Business Model. Nel caso di joint venture, l’impresa stipula un accordo di collaborazione con almeno un’altra impresa per un progetto comune, che le impegna a condividere risorse; nel caso del licensing, l’impresa cede a pagamento la licenza del proprio prodotto/servizio perché possa essere utilizzato con benefici economici; nel caso delle piattaforme di business model, l’impresa le utilizza per facilitare l’interazione con i consumatori per creare soluzioni su misura di valore per il business.

L’Open Innovation favorisce la collaborazione tra startup e imprese: le prime possono accedere a maggiori capitali e tecnologie, entrare più facilmente nel mercato, acquisire referenze; le seconde possono capitalizzare l’attività di R&D della startup, diversificare il business, testare più facilmente il prodotto/servizio prima del lancio sul mercato.

Gli Osservatori Digitali del Politecnico di Milano hanno individuato otto tipologie di relazione tra imprese e startup in chiave di open innovation: partnership R&D per la co-creazione di prodotti/servizi; fornitura spot; fornitura a lungo termine; partnership commerciale; partecipazione della startup a programmi di incubazione/accelerazione interni all’impresa; partnership per la co-creazione del business model; partecipazione dell’impresa all’equity della startup; acquisizione della startup.

L’innovazione aperta in Italia

Il 78% delle grandi imprese italiane e il 53% delle PMI adottano azioni di Open Innovation, soprattutto inbound: sono i dati emersi dalla ricerca degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano presentata a dicembre 2020 al convegno online “L’Innovazione Digitale non va in lockdown: alle imprese cogliere l’effetto startup”.

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Infografica: Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano

La ricerca, basata sulle risposte di 175 grandi imprese, 500 PMI e 213 startup innovative, ha evidenziato come siano soprattutto le imprese oltre i 1000 dipendenti ad aver adottato l’approccio Open Innovation, utile a mantenere la competitività sul mercato.

La collaborazione con le startup è diffusa nel 45% delle grandi imprese e nel 15% delle PMI.

Non è un caso che due esempi di open innovation in Italia legati alla collaborazione tra aziende e startup riguardino imprese come BPER Banca e TIM.

BPER Banca ha realizzato due diversi servizi con la collaborazione di altrettante startup: “My Money”, un sistema di Personal Financial Management, con la startup Meniga; attività di marketing condivise con la startup HomePal, che offre un servizio di compravendita e locazione di abitazioni.

TIM ha realizzato i TIM WCAP, una serie di hub che selezionano le migliori idee provenienti dall’esterno che possano essere sviluppate in azienda: da una call for partner è nata la collaborazione con la startup Swascan, ideatrice di una piattaforma di servizi IT Security in Cloud. La startup ha ampliato la propria offerta, TIM ha acquisito rapidamente uno strumento innovativo.

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Infografica: Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano

Dalla ricerca degli Osservatori del Politecnico di Milano emerge, infatti, che se il 65% delle grandi e grandissime imprese collabora già o ha in programma di collaborare con le startup, ben il 56% delle PMI dichiara di non sapere dell’opportunità o di non essere interessato alla collaborazione, cui va aggiunto un 12% di “esperienze negative”, ovvero PMI che hanno collaborato una volta ma non lo fanno più.

Poca percezione dei benefici? Forte preoccupazione legata ai rischi sulla proprietà intellettuale? Timore di non avere le competenze adeguate e saper gestire un aumento di complessità organizzativa?

Sicuramente orientarsi verso l’Open Innovation richiede un cambio di passo rispetto ai principi della cultura aziendale tradizionale. Un cambiamento che non tutti sono disposti, o ritengono necessario, attuare.

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